intervista a Alfredo Di Giovampaolo

10/06/2023

Alfredo Di Giovampaolo, giornalista con professione trentennale, da 24 in Rai, “al servizio del pubblico” e ideatore e conduttore di “Cammina Italia”, conosciutissima trasmissione sulle questioni ambientali, risolte e irrisolte, di approfondimento.

Alfredo, come ce la raccontiamo tra giornalisti rispetto alle tematiche ambientali? Le questioni deontologiche sono sempre le stesse o, visto l’immensità degli impatti del cambiamento climatico, c’è da porsi qualche problema in più o in meno?

Il problema che non ci poniamo è cercare di mettere in relazione i diversi avvenimenti che raccontiamo. Il cambiamento climatico non è slegato dalle alluvioni in Romagna, o dalla storia degli youtuber che passano la giornata in Suv e ammazzano un bambino di cinque anni. Il filo che lega questi e altri avvenimenti è la ricerca del profitto, un modello di sviluppo sbagliato che mette il denaro al centro della nostra vita. Contano più i soldi che le persone e anche il racconto giornalistico è dentro questo modello culturale, ne è condizionato. Ti faccio un esempio: nei Tg e sui giornali si parla della giornata mondiale dell’ambiente, del clima, delle plastiche, poi giri pagina o cambi canale e vedi servizi o pubblicità che ci propongono l’automobile come unico mezzo di trasporto, o una spider come simbolo di libertà. Quali strumenti forniamo al lettore o al telespettatore per comprendere la realtà? Il racconto giornalistico è parcellizzato: una news caccia l’altra, senza fermarsi mai a riflettere sulle cause, sulle possibili soluzioni. Non si coglie mai il nesso tra due fatti e questo vale soprattutto per le notizie ambientali. Si oscilla tra il catastrofismo e l’omissione, ma non si aiuta il cittadino a comprendere la complessità.

 

Tu questo lavoro lo fai da trent’anni. E’ cambiato qualcosa in tutti questi anni rispetto al tema ambientale?

Sicuramente oggi si parla di più dei temi dell’ambiente, fino a quarant’anni fa neanche la politica si era mai posta certi problemi. Le questioni ambientali, però, proprio per quello che dicevamo prima, vengono affrontate con degli slogan: oggi è tutto “sostenibile”, non esiste argomento che non venga trattato in termini di sostenibilità. Secondo me, la questione non è se ne parla di più, ma in che modo se ne parla.

 

Non vedi progressi?

Se non si riesce a capire in quale contesto avvengono certi eventi, dubito che si riesca a intraprendere la strada giusta. L’unico elemento che riesce a legare fatti diversi è una visione economicistica della società. Quando parliamo di cambiare stili di vita non lo facciamo perché abbiamo il dovere di preservare il pianeta, ma perché ci conviene economicamente. Quando si parla di sostenibilità, si sottolinea come le imprese “sostenibili” riescano a trovare più opportunità nel mercato. La difesa dell’ambiente non è un valore in sé, ma deve essere soprattutto conveniente. Anche in questo caso, troppo spesso, l’informazione ambientale risente di questa impostazione.

 

Stiamo anche drammatizzando troppo, secondo te? Drammatiziamo sì, ma solo per pochi giorni. Seguiamo eventi estremi, terremoti, inondazioni, alluvioni e siccità. Si contano i morti, con annessa retorica del cordoglio. Ce ne occupiamo per qualche giorno o settimana e poi si spegne tutto. Non si approfondisce, non si cerca di capire perché si verificano certi eventi, fino alla catastrofe successiva. Il giornalismo, come dicono gli anglosassoni, dovrebbe essere il “cane da guardia” della democrazia, evidenziare le mancanze, le scelte politiche sbagliate, denunciarle e fare in modo che si cambi rotta. Oggi il giornalismo sembra a cuccia sonnacchioso, pronto ad aggredire a comando e poi tornare al suo posto. Si spettacolarizza la breaking-news, ma poi non c’è l’approfondimento, la riflessione.

 

Però così suggerisci di tramutare l’informazione in educazione. Non è questo il mestiere del giornalista.

I giornalisti hanno fermato le guerre, hanno fatto cadere i presidenti mentitori, hanno svelato misteri, rendendo più forte la democrazia. Il giornalista è un “media”, cioè deve porsi tra la notizia eil cittadino e fornire a quest’ultimo le chiavi di lettura della realtà. Oggi non è più così, siamo vittime della “disintermediazione”, ma siamo i primi carnefici di noi stessi. Facciamo disintermediazione quando prendiamo una dichiarazione in internet e la rilanciamo. Poi ne prendiamo una contraria e rilanciamo anche quella, pensando di aver fatto il nostro mestiere. Ma il cittadino cosa capisce? Il giornalista deve “mediare”, appunto, approfondire, spiegare, far capire. Stimolare il senso critico dei fatti. Certo, bisogna essere giornalisti indipendenti da qualsiasi potere, anche di quello del proprio editore. Bisogna avere il massimo della credibilità per poter mediare. Se, invece, il giornalista, di qualunque tema si occupi, è asservito al potere non c’è mediazione, ma non c’è più neppure democrazia: la sostanza è questa.

 

E’ per questo che dalla cronaca passi all’approfondimento e costruisci “Cammina Italia”?

Francamente io penso di essere rimasto alla cronaca. Spesso le mie trasmissioni quando vanno in onda aderiscono perfettamente all’attualità anche se sono pensate e realizzate mesi prima. Se sei attento a quanto ti succede attorno. Se ti interessi a quello che interessa alla gente non puoi sbagliare. Da cronista ho seguito, per esempio, i terremoti degli ultimi anni, da quello a L’Aquila, in Emilia, poi in centro Italia. Poi mi è capitato di seguire un cammino, organizzato proprio in solidarietà delle popolazioni di Amatrice, Accumuli, Arquata del Tronto e attraversando a piedi quelle zone che pure conoscevo bene, ho incontrato altre persone, situazioni diverse, iniziative di cui non avevo mai sentito parlare. Così ho pensato che il “reportage lento” potesse essere un modo diverso per raccontare i fatti, un’Italia “che cammina”, che affronta problemi concreti e che, purtroppo, si ripresentano regolarmente, perché non vengono affrontati e risolti. Eventi che vengono descritti come “emergenza”, “tragica fatalità”. Ma se ci pensi è tutto molto prevedibile: se non si interviene su un problema, quel problema si ripresenterà sempre. Questo credo che sia il compito di noi giornalisti, nell’interesse del cittadino. Lavoro in Rai da tanto tempo e in questo senso, sento una doppia responsabilità: come giornalista e come giornalista del servizio pubblico.

 

Hai delle opinioni sull’Ambiente, sulle situazioni, su cosa non è stato fatto, si dovrebbe fare eccetera. Come fai a cancellare le tue opinioni quando intervisti, tratti temi importanti?

E’ chiaro che qualsiasi giornalista ha una propria opinione. Anche la scelta degli argomenti è frutto di quello che sei. Però non mi sono mai nascosto, proprio perché sono indipendente e se sei onesto e trasparente il telespettatore può decidere se seguirti o se cambiare canale. In ogni caso, per non far pesare la mia opinione cerco di uscire dal derby perenne, che caratterizza ogni dibattito nel nostro paese. Raramente intervisto esponenti politici, cerco di interpellare dei tecnici, accademici, scienziati, in grado di argomentare e spiegare le proprie tesi.

 

Devo dire che anche gli scienziati non sono proprio così d’accordo tra loro. Vedi i virologi… Su una questione come quella dei vaccini e del Covid è comprensibile che ci si sia stata anche una diversità di vedute. Nessuno aveva mai vissuto una situazione del genere. Ma alla fine, la comunità scientifica era quasi unanimemente concorde nel dire che l’unico modo per debellare il virus era il vaccino. Anche sulle questioni ambientali possono esserci posizioni diverse, ma sono casi isolati. Per esempio, sui cambiamenti climatici, c’è una comunità scientifica che da decenni concorda sul fatto che il fattore umano ha contribuito ad amplificarli e ad accelerarli. È chiaro che le glaciazioni e le lunghe siccità ci sono sempre state, ma la frequenza e l’intensità con cui si sono verificate nell’ultimo secolo è una realtà. Anche qui, il giornalismo non può limitarsi a mettere uno contro l’altro pensatori diversi. Le questioni, tutte, sono sempre molto complesse e noi dobbiamo aiutare il cittadino a comprendere questa complessità.

 

Ho chiesto a ChatGPT cosa deve fare il giornalista che si occupa di Ambiente. Ha risposto che il giornalista deve sensibilizzare, spingere le persone a occuparsi di Ambiente e farlo in modo imparziale e coinvolgente. Devono educare, sensibilizzare e incoraggiare… Tu sei d’accordo?

L’idea del giornalismo militante non mi convince troppo. Un giornalista deve essere soprattutto credibile, preoccuparsi di essere ritenuto affidabile, non di schierarsi. Ma su certi temi, come i diritti

civili, la tutela delle future generazioni, il destino del nostro Pianeta, non puoi non avere una preferenza.

 

Però questo è troppo facile. Tutti sono per la tutela dell’Ambiente. Tutti sono contro la schiavitù. È un po’ alla Catalano. Allora la metto così: tu sei ecologista? Il problema è che noi viviamo in una società dove anche l’ovvio è messo in discussione. Io, per esempio, da quattro anni non ho più la macchina. Sono ecologista? Continuare a usare un mezzo che ti costa, inquina, ti fa perdere un sacco di tempo durante la giornata, è razionale o ecologista? Rinunciando all’auto risparmio mediamente 300 euro al mese. Significa che sono schierato da una parte o dall’altra? Io credo che, date le condizioni e i nostri stili di vita, cercare di usare i mezzi pubblici di trasporto, o andare a piedi e in bicicletta, sia la cosa più razionale che si possa fare. Ma questa è un’ipotesi che non viene quasi mai presa in considerazione seriamente da chi amministra le nostre città. Anche in questo campo si scatena il tifo da derby e i problemi rimangono lì, irrisolti. È oggettivo e sotto gli occhi di tutti che le nostre città sono sempre più inquinate, trafficate, sporche, che lentamente stiamo distruggendo l’ambiente in cui viviamo. Ho una figlia di 12 anni, come faccio a non pormi il problema? Come faccio a non pensare al suo futuro e alle condizioni in cui stiamo lasciando il Pianeta alle prossime generazioni?

 

Ti è capitato di leggere titoli tipo: “Montagna assassina” oppure “la violenza dell’acqua”? Non me lo dire. Una cosa incomprensibile per stupidità e ignavia. E’ un modo di raccontare le cose completamente fuorviante. Il giornalismo dovrebbe fare lo sforzo di raccontare in modo razionale. Spesso si dà la colpa alla fatalità quanto si capisce benissimo che le questioni sono connesse tra loro e che hanno una loro spiegazione razionale.

 

Dunque il tuo lavoro, la tua scelta dell’approfondimento, soprattutto sul tema ambientale, ti ha dato delle soddisfazioni? Ne vale la pena?

Certamente. Non sarò certo io a cambiare la storia con un servizio giornalistico, o con la mia rubrica. Ma questo lavoro continuo, nonostante tutto, ad amarlo. Perché mi aha fatto conoscere tantissime persone che ogni giorno si impegnano per difendere il proprio territorio, per creare condizioni di vita migliori. Un lavoro che mi ha fatto scoprire un’Italia migliore che merita di essere raccontata. Gli inglesi parlano di constructive journalism, cioè un’informazione che non si limita a denunciare un problema, ma che vuole raccontare anche le storie di chi quel problema prova e a volte riesce a risolverlo. Questa parte del mio lavoro la trovo molto interessante perché è anche ragionata. Poggia meno sulle emozioni e più sulle riflessioni. Ti rendi conto che le cose sono sempre molto più complesse di quella schizofrenia che viene fuori dal rumore continuo di un’informazione che non è informazione. Sulle questioni ambientali, poi, non scherzerei molto perché ne va del destino di intere popolazioni e dell’intero Pianeta.

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